Ripartire (La mia nuova vita Cap.4)

Quel giorno era iniziato come tanti altri e non sapevo sarebbe diventato speciale e che lo avrei ricordato per tutta la vita come il punto di un nuovo inizio. Papà era a casa dal lavoro e per l’ennesima volta mi aveva proposto di uscire per andare a fare una passeggiata. E come le volte prima avevo detto di sì per poi supplicarlo di lasciarmi nella mia poltrona. Il terrore di non farcela mi pietrificava… Non riuscivo a vincerlo. Scocciato e frustrato dalla mia arrendevolezza ha tuonato:”Non ti permetterò di rinchiuderti in questa casa, vestiti e andiamo!”. Al mio ennesimo rifiuto è passato ai fatti. Mi ha presa in braccio e mi ha portata fuori, ma non semplicemente fuori casa, ma dalla parte opposta dell’isola vicino a dove abitava nonna Maria. Mi ha messa in terra e risoluto mi ha detto:”Ora torniamo a casa!”. L’ho supplicato piangendo che mi riportasse lui, non ce la facevo, non respiravo bene e non avevo fiato per tornare e la debolezza era talmente tanta che le mie gambe non reggevano nemmeno lo scheletrino che ero diventata. Non mi ascoltava, faceva dieci passi e mi aspettava. E ho ricominciato a camminare! A tratti mi sosteneva lui, in altri lo sostituivo col muro. E i primi dieci passi sono diventati venti, sempre intervallati da soste per far placare il cuore e far rifiatare i polmoni. Credo di averci messo quasi due ore a tornare a casa invece di venti minuti! Ma respirare quell’aria nuova e fresca e aver rimesso in moto i miei muscoli è stata la cosa più bella che fosse successa negli ultimi mesi. Ed è stata in quell’occasione che io e papà abbiamo attuato per la prima volta una nuova tecnica per uscire che avrei poi adottato per sempre: fare brevi soste anche davanti le vetrine per riprendere fiato o cercare di ammirare il paesaggio intorno senza far vedere quanta sofferenza si celasse dietro ogni respiro. E vi assicuro, da allora ha sempre funzionato!!! Tornati a casa l’abbraccio di mamma e le nostre lacrime di gioia hanno trasformato quella giornata iniziata con la paura, in una delle giornate più importanti della nostra vita!!! Se mia mamma mi aveva donato la vita, mio papà me ne aveva restituita un’altra! Iniziava così la mia nuova vita!

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La mia nuova vita (Cap.3)

Quelle due settimane passate all’ospedale mi sono sembrate eterne. E malgrado non stessi bene, il mio unico desiderio era poter tornare a casa, poter tornare alla mia vita. Mi struggevo per le assenze a scuola, non sopportavo l’idea di non andare a danza e mi mancava la solita routine. I medici, felici della mia insperata ripresa, non si sbilanciavano rispetto al mio futuro e alla mia famiglia importava solo di non avermi persa. Forse le cose sarebbero andate diversamente se già un mese prima avessi fatto una semplice radiografia!!! Non ero in grado di tornare a casa con le mie gambe, troppo debole e troppo affaticata nel respiro. Siamo tornati in ambulanza e i primi passi sono stati un’agonia. Ritrovare il calore di casa e essere contornata dalle mie cose era ritrovare una normalità che però stranamente non sentivo più tale. Avevo quella fame d’aria che mi metteva ansia e che perdurava nonostante i farmaci… E quella tosse che mi faceva esplodere i polmoni che non si placava mai. Di tornare in classe o a danza non se ne parlava. Dovevo continuare a fare flebo a casa e il dottore veniva anche due volte al giorno. A dicembre un nuovo ricovero all’ospedale pediatrico del Lido di Venezia mi ha lasciato intendere che la mia vita aveva subito una svolta non voluta… Ricordo le corsie con i pianti e le grida dei bimbi, i tavoli bassi, tondi e colorati dove mangiavamo e passavamo il tempo disegnando e colorando. Ero la più grandicella e  mi sentivo un gigante in mezzo a quei cuccioli. L’atmosfera era totalmente diversa dall’ospedale civile e dalle finestre si vedeva il mare. Quel mare delle vacanze estive che ormai era già un ricordo. Ho trascorso i due mesi successivi a casa a letto dei miei, incapace anche di alzarmi, tanto ero debole. Secondo voi come facevo ad andare in bagno? Mio papà o il dottore o chi c’era al bisogno, mi tiravano su di peso e mi mettevano seduta su una sedia e mi trascinavano fino in bagno per poi riprendermi in braccio e adagiarmi dove serviva. Passavo le giornate guardando la tv, aspettando i pasti e soprattutto i compiti da fare col papà. Purtroppo all’epoca non c’erano cellulari o computer per comunicare. Il telefono era attaccato al muro e lontano dalla camera. E anche se lo avessi avuto vicino non mi sarebbe servito… Rimaneva muto, almeno per me. Le uniche persone che vedevo erano i miei genitori, mio fratello che cercava di farmi giocare, i miei nonni e qualche parente. Nessun amico a tenermi compagnia… Anzi, l’unica che è passata a trovarmi per portarmi i compiti, è scappata via piangendo dopo avermi vista… Ero diversa? Ero diventata un mostro? Certo, ero cambiata e con i miei 44 chili di secchezza non avevo certo l’aspetto più salubre di questo mondo! Da quel giorno ho iniziato a odiare me stessa, a odiare la mia nuova condizione. Non sarei più potuta essere una ballerina… Il mio più grande sogno era svanito! Piangevo tutto il giorno e mi rifiutavo di reagire. I miei non sapevano cosa fare e assistevano inermi. Eppure continuavo a studiare… Volevo tornare a scuola. Mio papà ha iniziato a dirmi che sarei prima o poi dovuta uscire da quella gabbia sicura che era diventata la nostra casa ma ogni volta che provavo a uscire, tornavo indietro terrorizzata e mi rifugiavo nella poltrona a righe nella quale avevo fatto una bella buca. Non respiravo bene e avevo paura. Fino a che un giorno, il mio grandissimo papà ha fatto ciò che mi ha permesso di ricominciare a vivere!!! 

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La mia nuova vita (Cap.2)

La soffice e tiepida carezza della mano di mia mamma è il primo ricordo della mia nuova vita. Appena i miei occhi si sono adattati alla luce, ho capito di non aver sognato: ero stesa in un letto di ospedale e sentivo il gorgogliare di un apparecchio alle mie spalle. La gola mi bruciava dall’arsura e l’aria arrivava da una mascherina verde che mi faceva gocciolare di condensa il mento. Gli occhi lucidi, gonfi e arrossati della mamma non riuscivano a rispondere a tutti i quesiti che mi balenavano e si rincorrevano nella testa in quei pochi e primi attimi di coscienza. Con lei vicina mi sentivo al sicuro. Poi ho iniziato a ricordare: la febbre alta, la scala ripida del dottore, la radiografia, la corsa in ambulanza, l’antibiotico, la crisi respiratoria e poi più nulla per una settimana. Sette interminabili giorni nei quali i miei genitori hanno vissuto con la paura di perdermi. E i medici che, impotenti, non potevano e volevano fare previsioni. Allo sgomento dei primi ricordi è subentrata la paura di un luogo e di una situazione nuovi, incomprensibili. Fino a pochi giorni prima la mia vita scorreva serena e senza preoccupazioni. Ora mi ritrovavo in un enorme salone del vecchio ospedale con soffitti altissimi, relegata in una delle tante stanze ricavate con semplici separé, credo di plastica, dalla quale si potevano sentire i lamenti delle persone ricoverate. La notte era il momento peggiore: ancora stordita da tutti i farmaci somministrati per flebo e iniezioni l’unica cosa che auspicavo fare era riposare, dormire, anche per non dover affrontare le mie nuove paure. Le urla e i continui lamenti facevano crescere in me l’ansia e passavo la notte a sperare che qualcuno facesse qualcosa per promuovere il silenzio! Era una situazione struggente tanto che mia mamma ha deciso di regalarmi il mio primo mangiacassette rosso e il mio primo album “Bad” di Micheal Jackson che tanto desideravo! E proprio Michael mi ha tenuta compagnia nelle lunghe notti insonni (alla fine sapevo tutti i brani a memoria)! Non dimenticherò mai l’espressione di mio papà quando mi ha rivista! Era incredulo, impaurito e allo stesso tempo sollevato perché ero ancora viva! Si sentiva in colpa per non esserci stato! Ora nessuno di noi, compreso mio fratello, poteva sapere cosa sarebbe potuto succedere. Nei giorni seguenti le mie condizioni miglioravano ma malgrado ciò sentivo che qualcosa si era irrimediabilmente compromesso: il mio respiro. Ricordo poco di quei giorni, tanto ero frastornata. Ricordo però quando papà mi portava gli appunti di scuola e passavamo i pomeriggi a fare compiti e studiare le lingue, soprattutto tedesco, per non rimanere troppo indietro! Lo studio rappresentava un ancora che mi teneva aggrappata ad un piccolo barlume di normalità e lo sarebbe stato poi per tutta la vita!!! 

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La mia nuova vita (Cap.1)

La mia scuola di danza si trovava a Venezia e per arrivarci dovevo prendere il vaporetto da Murano Navagero (una delle fermate della mia isola), scendere a Venezia e camminare venti minuti a passo lesto per arrivare a destinazione. Si sa, a Venezia ci sono i ponti da attraversare e non ci sono altri mezzi se non i piedi! Arrivata al ponte di Rialto, iniziai a salire e nemmeno a metà mi dovetti fermare. Il mio fiato era corto, una bruttissima e conosciuta sensazione di fame d’aria mi invadeva fino alle viscere e iniziai ad avere paura. Avanzando a tratti sono riuscita  a oltrepassare il ponte e mi sono diretta a scuola dove sicuramente avrei ricevuto un minimo di aiuto. Dopo aver indossato calze, body e scarpette con la punta e prima di iniziare lezione ho parlato con Iride e lei mi ha detto che si poteva trattare di asma. Qualche anno prima, all’età di nove anni, avevo avuto degli episodi allergici che avevo dimenticato e un professore di Padova riteneva che potessi essere un soggetto allergico ( probabilmente agli acari della polvere) e quindi sottoposto a possibili episodi asmatici. Per questa supposta allergia ci suggerì di fare uno dei primi vaccini sperimentali contro la polvere a Milano e fare la bonifica ambientale togliendo tende, tappeti, carta da parati, i miei peluche, trasformando la nostra casa in un luogo più asettico ma molto triste! Avevo terminato i vari richiami del vaccino a maggio e le cose andavano meglio fino a questo momento. Non volevo credere di poter avere qualche problema visto il mio fisico fortissimo e muscoloso nonostante i miei 51kg. In un modo o nell’altro sono riuscita a fare lezione e a tornare a casa. Per fortuna avevo una compagna speciale con cui condividere la danza e la strada del ritorno, mia zia Elisabetta (sorella più piccola di mia mamma) che ho sempre e solo chiamato Betty per la nostra età ravvicinata. Arrivata a casa ho spiegato tutto ai miei genitori che hanno deciso di portarmi dal dottore, anche amico di famiglia. Ha parlato anche lui di asma e mi ha prescritto il Ventolin al bisogno. I giorni seguenti sembrava essere tutto passato, andavo a scuola e avevo una vita normale. A metà ottobre del 1997 (ops, non ho ancora indicato nessuna data!) la febbre è tornata, non alta ma continua e fastidiosa. Ancora una volta dovevo assentarmi da scuola e danza. Passavano i giorni e questa febbre non se ne andava nemmeno assumendo il Bactrim. In quei  giorni mio papà era a Milano per una fiera e mia mamma impaurita ha subito chiamato il dottore che ha semplicemente suggerito di portarmi da lui, non poteva muoversi dal suo studio perchè aveva gente… Mi ha auscultato è un po’ per scrupolo mi ha mandata a fare una radiografia urgente. Arrancando siamo riuscite ad arrivare all’ospedale e dalla lastra è risultata una macchia scura al polmone destro. Tornate a Murano, non riuscendo a tornare dal dottore per fargli vedere i risultati, ci siamo fermate dalla nonna Nella (nonna Nella, toscana di origine e nonno Toni, il bel marinaio che aveva sposato) e mia mamma ha chiamato l’ambulanza perché non respiravo quasi più. Ha chiamato il dottore per avvisarlo e lui disse:” Gabri, non pensavo che fosse così grave!”. L’ambulanza non arrivava e io stavo sempre peggio… Dopo mezz’ora ecco le sirene. A Venezia anche le ambulanze viaggiano in acqua e devono trovare un posto per attraccare. E dove hanno attraccato? Al largo di due barconi e nel trasportarmi a mano con la sedia fra un po’ mi perdono in acqua. Una volta a bordo mi hanno ficcato i tubicini nasali per l’ossigeno in attesa di arrivare al pronto soccorso. Il viaggio è sembrato infinito e ormai io mi allontanavo sempre più… Anche l’ossigeno non riusciva a lenire il soffocamento… Non ricordo bene cosa sia successo al pronto soccorso. Rivedo solo l’enorme ingresso dell’ospedale e i medici che si affrettavano… Il resto è buio!

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La fine di una vita e l’inizio di una nuova

La mia ultima estate da adolescente è trascorsa tranquillamente. Da luglio, come gli anni prima, la routine quotidiana era scandita dai soliti rituali per andare al Lido di Venezia, la spiaggia dei veneziani, dove avevamo la capanna in zona A per tutta la stagione. Per noi la capanna, un camerino più grande fornito di tavolo, quattro sedie, sdraio, mobile interno per le stoviglie e tettoia per i pranzi all’aperto, diventava la nostra seconda casa… La casa prevalentemente dei Vianello, fratelli di mia mamma, nonna e nipoti. E per tre mesi diventavamo un unico e vasto nucleo familiare che alla fine si allargava anche alle famiglie delle capanne accanto. Dopo aver sistemato le cose appena arrivati, la zia Nadia (la sorella più grande di mia mamma) chiamava all’adunata tutti e proponeva la passeggiata mattutina fino al faro, la punta più estrema del Lido. Avendo l’età del divertimento, in noi giovani scattava spesso il rifiuto a tale sfacchinata e spesso preferivamo rimanere in riva al mare, sul bagnasciuga pronti per il primo bagno della giornata!!! O per aspettare di costruire la nostra pista per le biglie. Verso mezzogiorno e mezzo ci raccoglievamo intorno al tavolino e spesso eravamo talmente tanti che le sedie fornite non bastavano… E mi ricordo di quanto fossero belle e animate le nostre conversazioni e di quanto amassi vedere sorridere la nonna Maria perché aveva con sè figli e nipoti. Dopo pranzo spesso giocavamo a carte o facevamo la pennichella. E io aspettavo con ansia il momento di dirigermi in pineta per vedere gli amici e quell’agosto soprattutto una persona… I nostri teli colorati ricoprivano una vasta zona e i nostri schiamazzi attiravano gli sguardi di chi passeggiava o irritavano chi voleva riposare all’ombra degli alberi. Spesso migravamo in altri bagni per alternare le zone e essere più vicini ad altri amici e i nostri pomeriggi trascorrevano  fra chiacchiere, musica, scherzi vari e anche gavettoni. Le mie attenzioni però andavano a lui… Credo proprio di aver una cotta per Luca, da tutti soprannominato Demone per i suoi occhi di ghiaccio. È stata una cotta platonica che lui ricambiava ma, sapendo che a fine estate sarebbe tornato a casa in Toscana, non abbiamo avuto il coraggio di avventurarci in una storia a distanza! Chi l’avrebbe saputo che poi mi sarei dovuta trasferire proprio a pochi chilometri da lui? La  nostra routine quotidiana ci rendeva sereni e spensierati. Non sapevo ancora che di lì a poco la mia vita sarebbe radicalmente cambiata. A metà agosto una brutta febbre improvvisa mi ha impedito di andare al mare interrompendo quell’estate fantastica. Quando sono riuscita a tornare ancora debole ormai era la fine di agosto, al termine della stagione. Ormai ero proiettata all’inizio del liceo e soprattutto alla ripresa delle lezioni di danza che quest’anno sarebbero diventate più frequenti perché all’ultimo anno. Il 13 settembre ho varcato la porta del liceo Zambler e ho conosciuto i miei nuovi compagni di avventura. Se non sbaglio eravamo in 31! E a pochi giorni dall’inizio la febbre è tornata ed è stata intermittente per un mesetto. Quando stavo meglio tornavo a danza e un giorno ho sentito che qualcosa non andava… 

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Vita serena

La mia infanzia è stata normale, come quella di tante mie coetanee.i miei genitori erano fantastici e mi ricordo di quando da piccola aspettavo l’arrivo di papà giù dal ponte di San Donato e di come mi prendesse in braccio facendomi roteare! Quando verso le 17 tornava a casa, per farsi aprire fischiava con un riconoscibile motivetto!!! Mamma è sempre stata dolcissima e buonissima! A cinque anni ho iniziato a fare danza classica due volte a settimana… Come per la maggior parte delle bimbe, volevo diventare una ballerina! La mia non era un’insegnante con la I maiuscola ma ce ne siamo accorte dopo cinque anni di lezioni e saggi… Non si preoccupava minimamente dell’età più adeguata per le punte col gesso che ho indossato a sette anni… Ovvio io ero alle stelle perché una volta salita sulle punte ti senti davvero già una ballerina… Ma i miei piedi sono cresciuti un po’ storti perché compressi in una scarpetta con punta stretta. Fino a quando danzi ami i tuoi piedi, soprattutto quando hanno il giusto collo del piede e quando non si riempiono di vesciche e fai invidia a tutte le altre che soffrono le pene dell’inferno! Poi quando smetti inizi a odiarli perché li vorresti dritti…                                                                                                                                  I cinque anni di scuole elementari sono stati fantastici ma anche pieni di scontri. Sono sempre stata la più alta di statura e i maschi, sentendosi un po’ sovrastati, mi chiamavano con nomignoli che odiavo:” Pamela Tarlá col Cup pelà”, “Pamela Ewing” di Dallas, “tonno” e chi più ne ha più ne metta. All’inizio mi facevano arrabbiare, poi sono sempre riuscita a fregarmene e davo loro lezioni cocenti quando giocavamo a calcio nel giardino della scuola o quando facevamo i tornei che vedevano contrapposte la scuola Cerutti, dove andavo io, e le Suore… Nessuno mi stava dietro e facevo sempre gol! Idem a pallavolo! Qualsiasi attività facessi eccellevo sia fisicamente sia mentalmente… In tutto ciò che facevo ci mettevo tutto l’impegno che potevo e non mi fermava nessuno. È così è continuato ad essere anche nei tre anni delle medie! Lo sviluppo a 11 anni mi ha fatta fiorire e tutto lo sport che facevo mi rendeva ancor più schiantosa… Mi piaceva portare le minigonne e topppini succinti. Ho cambiato scuola di danza per vedere di realizzare il mio sogno… La mia nuova insegnante era Iride Sauri, allora prima ballerina alla Fenice di Venezia, e le lezioni, anche quattro volte a settimana, erano impegnative e pesanti! Riuscivo però a conciliare benissimo studio e attività sportiva… Il mio fisico era fortissimo e potevo fare qualsiasi cosa volessi. In pausa estiva giocavo a tennis, andavo a correre per Murano o al campo sportivo, giocavo a pallavolo… In inverno lo sci che coinvolgeva tutta la famiglia.  Potevo fare qualsiasi cosa… I miei genitori erano invidiati da altri che invece avevano figli un po’ più fragili. Con mio fratello ci sopportavamo… Lui prendeva lezioni private di pianoforte e mi arrabbiavo quando strimpellava a casa perché non riuscivo a studiare… Ma gli ho sempre voluto bene!!! Se litigavamo o combinavamo guai papà ci chiedeva di avvicinare le mani col dorso verso l’alto per una bella pacca che però non ci hai mai dato, vista la paura che ci incuteva e che ci induceva a rientrare nei ranghi.                                                                                                                                                            Qualche magagna di salute ho iniziato ad averla soprattutto al naso con le adenoidi e i polipi nasali per i quali mi hanno sottoposto a una tortura mostruosa: la dilatazione meccanica dei turbinati che però non ha evitato l’intervento. Probabilmente si trattava dell’inizio di qualcosa. Ho concluso le scuole medie col massimo dei voti e a giugno ho superato la prova finale per passare all’ultimo anno della scuola di danza. A settembre avrei iniziato le scuole superiori al liceo linguistico Zambler, un istituto privato molto conosciuto per dare un’ottima formazione. I miei avrebbero fatto dei sacrifici per mandarmi lì e non li avrei delusi. Finita la scuola tutta la family è partita per una vacanza in Sicilia dove mi sono presa la mia prima cottarella che non è potuta continuare per la distanza! Non sapevo che pochi mesi più tardi la mia vita sarebbe cambiata improvvisamente! 

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Pamela

E’ difficile dire chi io sia dopo tutto ciò che ho passato… La vita ha trasformato più volte chi ero e continuerà a cambiarmi per il resto del tempo che mi sarà concesso. Anagraficamente parlando, sono nata all’Ospedale Civile di Venezia l’11 Febbraio 1973. Era una fredda domenica invernale e mia mamma mi ha dato alla luce dopo quattro giorni di un travaglio che ci ha quasi uccise… Forse la mia vita è stata già complicata dall’inizio. Sono  nata cianotica perché mi ostinavo a voler uscire porgendo la spalla al mondo e i medici alla fine mi hanno dovuta tirare fuori con il forcipe che mi ha fatta sembrare un mostriciattolo agli occhi di mio papà. Poi però sono diventata un fiore!!! I primi quaranta giorni li abbiamo passati a casa di nonna Maria perché mamma non riusciva ad accudirmi per gli innumerevoli punti che le avevano dato, per vari ascessi e le mastiti (colpa mia perché avevo la boccuccia piccola!). Non ricordo, come penso sia normale, i primi anni di vita… solo le foto possono colmare tali vuoti. Mamma e papà dicono che mangiavo e dormivo e il mio essere paffutella ne era la prova più tangibile. Ero diventata la cocca di papà. Nelle foto sembro una bambolina!!! Il 10 settembre 1974 nacque mio fratello Manuel, per fortuna in maniera meno traumatica, anzi quasi perso per via per il terrore di mia mamma di soffrire come alla mia nascita. Mi piaceva prendermi cura di lui anche se crescendo poi siamo diventati i classici fratelli “cane e gatto”. Abbiamo frequentato l’asilo insieme perché non voleva stare solo e perché già si intuiva che la scuola non sarebbe mai stata una sua priorità. Io invece adoravo i miei quaderni e appena presa la penna in mano ho iniziato a scrivere e copiare le parole. Ho iniziato a leggere prestissimo e imparavo leggendo le insegne delle botteghe o il nome delle vie che percorrevo. E il primo giorno delle elementari è stato il primo dei tanti anni passati a studiare. Quella mattina, il mio incedere tutta orgogliosa e impettita con grembiule nero, codini e cartella nuova in spalla ha dato inizio alla mia vita fra i banchi.

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